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Storia di un’avventura on the road – Prima parte

12 giugno 2015 Nessun commento

Il giovane villese Davide Mencaroni, subito dopo la laurea, ha viaggiato per il Sudamerica, unendo il piacere del viaggio alla voglia di conoscere le persone che ha incontrato. Per necessità di spazi divideremo questo racconto in due parti.

Il termine “Patagonia” non viene ormai più solo utilizzato per localizzare geograficamente la parte più meridionale del continente sudamericano, divisa tra Argentina e Cile. Patagonia è una metafora che significa “lontano, esotico, estremo”. Freddo e vento. Il nulla. La meta ideale che era stata immaginata per salvare la razza umana quando sul mondo era calato lo spettro della guerra atomica nell’antipatia tra USA e URSS. Terra di ampi spazi, strade senza una curva per centinaia di chilometri, praterie sconfinate e vette di estrema difficoltà alpinistica che raccontano anche le storie degli italiani che le hanno conquistate, tra cui il leggendario Walter Bonatti.

Sarà per l’aura mitologica che circonda questa regione del mondo, ma la Patagonia ha rappresentato per me un sogno da sempre, e personalmente coincideva con l’ idea del “viaggio della vita”, e in fondo sapevo che prima o poi ci sarei stato.
L’occasione ideale per mettermi in viaggio si è presentata al termine dei miei studi. Nonostante le statistiche sulle possibilità di un impiego immediato per un laureato in geologia in Italia non siano del tutto ottimistiche, ho comunque deciso di investire tutti i miei risparmi per la realizzazione di questo forte desiderio. Il fatto che avevo a disposizione tutto il tempo che volevo, unito al costo non propriamente economico del biglietto aereo, mi ha fatto prendere la decisione di sfruttare questa opportunità nel modo più intenso possibile prenotando il volo di ritorno due mesi e mezzo dopo l’andata.

L’idea era quella di passare qualche settimana in Patagonia, per poi fare un giro non ben definito dell’America Latina. L’unica cosa certa che avevo programmato era di arrivare e ripartire da Buenos Aires.
E fu così che in men che non si dica quel fatidico giorno di inizio gennaio è arrivato. Uno zaino con un equipaggiamento ridotto al minimo indispensabile e una tenda, un programma su un itinerario che copriva i primi 10 giorni del viaggio e una sensazione di libertà mai provata prima.

Buenos Aires è una città frizzante e ricca di fascino, anche se molto distante dallo standard europeo di “bella città”. D’altronde non si può chiedere di visitare le città coloniali sudamericane basandoci sulla bellezza del loro centro storico, come faremmo in Italia. La memoria storica che Buenos Aires trasuda un passato molto più recente, testimoniato non dai monumenti, ma dalla presenza fisica dei suoi protagonisti: sono le madri dei desaparecidos, di quelle migliaia di ragazzi argentini scomparsi nel nulla a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, sotto il regime della giunta militare, che non sono ancora stanche di ricordare al mondo quello che è successo, né di chiedere al governo che fine abbiano fatto i loro figli. Si radunano in Plaza de Mayo, ogni giorno, coi volti invecchiati dal tempo e da un dolore logorante, per far conoscere il loro dramma ad ogni persona che le voglia ascoltare, o che le chieda il significato dei loro striscioni.

A Buenos Aires mi sono in realtà fermato solo pochissimi giorni, dato che l’aspettativa e la curiosità per quello che era il vero obiettivo del mio viaggio si faceva sempre più pressante. Ho così percorso con un pullman i 2800 chilometri che mi separavano da quello che doveva essere il vero punto di inizio del mio itinerario, Punta Arenas, nell’estremità meridionale del Cile. E’ stato quello il momento in cui ho capito che il mio budget non sarebbe stato sufficiente per coprire tutti gli spostamenti che avevo programmato in pullman, e che avrei dovuto proseguire in autostop.

Dopo nemmeno una settimana dalla mia partenza, ero in Patagonia, nel meraviglioso parco nazionale “Torres del Paine”, camminando tra i suoi ghiacciai, laghi e le incantevoli vette granitiche.
Nonostante la parte più meridionale del continente latino sia immensa e abbia zone ricche di fascino ovunque, esistono ovviamente alcune attrazioni particolari, che fanno parte di quella categoria di luoghi che se vai in un posto, non puoi non visitare. Per questa ragione sono provvisoriamente ritornato in Argentina, per la precisione nel villaggio di El Calafate, per visitare il ghiacciaio Perito Moreno. Oltre ad essere il ghiacciaio più spettacolare tra quelli facilmente visitabili, il complesso di lingue glaciali di cui fa parte, cioè il Campo de Hielo Sur, rappresenta la terza riserva al mondo di acqua dolce. In altre parole, il ghiacciaio più grande del pianeta se si escludono Artide e Antartide.

A un centinaio di chilometri dal Perito Moreno, all’interno di una splendida vallata si trova un’altra perla della Patagonia argentina, il villaggio di El Chalten. Da questo piccolo paese si ha accesso a quelle che sono probabilmente le più famose montagne della cordigliera patagonica, cioè i mitici Fitz Roy e il Cerro Torre. Anche se dai tempi dei primi esploratori l’atmosfera è indubbiamente cambiata, e ormai questi posti siano diventati una forte meta turistica per il paese, piazzare la tenda nei campi base in cui i più grandi alpinisti del secolo scorso hanno dormito, aspettando che le difficili condizioni climatiche dessero un attimo di tregua per provare l’ascesa, è un esperienza che difficilmente può lasciare indifferenti, e che riesce a far vivere la sensazione di essere un esploratore, il primo uomo a calpestare quei luoghi così aspri e ventosi. Era esattamente ciò per cui ero partito.

Dopo tre settimane spese a camminare libero e spensierato in queste terre magiche, era però arrivato il momento di andarmene. In realtà avrei potuto restare molto di più, siccome potrebbe non bastare una vita per esplorare un territorio così ampio e le condizioni meteo erano state particolarmente magnanime con me. Nonostante questo, i ghiacciolini che ritrovavo attaccati alla mia tenda ad ogni alba mi ricordavano che ero comunque parecchio a sud, e che qualche (parecchie) centinaia di chilometri più a nord l’estate era entrata nel vivo.
A questo punto avevo però terminato le mete su cui mi ero documentato e che mi ero imposto di visitare, quindi cominciava la parte di “improvvisazione”.

In quel momento ho deciso che avrei attraversato tutto il Cile e sarei arrivato in Perù, per la precisione nella meraviglia Inca di Machu Picchu. In fondo, avevo il tempo per percorrere quei 6mila chilometri. O forse semplicemente non avevo la minima idea di cosa significassero.
In ogni caso, conscio del fatto che non potevo certamente permettermi un pullman per percorrere tutta questa distanza e avevo bisognoso dei consigli delle persone su cosa vedere nel frattempo, mi sono messo in strada con il pollice alzato, sulla ruta40, strada mitica che collega questi posti fuori dal mondo. Il problema era che non passava nessuno.

Il primo giorno di viaggio mi aspettavo di percorrere almeno 500 chilometri per portarmi un po’ a nord. In realtà ne ho percorsi una ventina camminando e mi sono dovuto accampare a bordo strada, in mezzo al nulla più assoluto.
Il giorno dopo fortunatamente si è fermato un furgone. Dentro c’erano dei ragazzi brasiliani che mi hanno aiutato a cominciare questa avventura, e con i quali mi sono ritrovato a viaggiare in allegria per qualche giorno. Da quel momento ho cominciato a macinare strada giorno dopo giorno. Una volta rientrato in Cile, ho percorso una delle strade più spettacolari del mondo: la Carretera Austral, cioè una strada perlopiù sterrata che collega i paesi isolati dell’estremo sud con i centri più grossi che si trovano più a nord. Si tratta di posti ancora molto poco popolati, ma abitati da persone dal cuore d’oro pronte ad offrirmi un passaggio o ad aprirmi le porte delle loro case per mangiare e dormire. Gli spazi per accamparmi comunque non mancavano, ed erano sempre in posti di una bellezza da togliere il fiato…

Ho raggiunto Puerto Montt dopo circa una decina di giorni; si tratta della grande città più meridionale del Cile, e da quel momento i miei spostamenti si sono semplificati grazie alla presenza di un’autostrada, che da qui parte e continua fino al Canada, la cosiddetta Panamericana. Di contro, la strada non era certo affascinante come nella natura incontaminata dove avevo viaggiato fin’ora, e anche i rapporti con le persone si facevano più difficili, come è normale che sia passando da una società rurale e contadina alle grandi città; la gente si fa più diffidente e chiusa, ti mettono in guardia sui pericoli, si guardano alle spalle. Nonostante questo però ho attraversato senza nessun tipo di problema tutta la parte centrale del Cile aiutato soprattutto da camionisti che mi davano sempre un passaggio senza problemi.

Proseguendo verso nord, improvvisamente ci si trova di fronte a un cambio di ambiente: pascoli, vegetazione, fiumi e laghi scompaiono per lasciare spazio al deserto di Atacama, il luogo più arido del pianeta. In mezzo a questa distesa di sabbia, rocce e qualche sporadico cactus, sorge però un paese, San Pedro de Atacama, dal nulla. La sua esistenza è possibile grazie alla presenza di un oasi che permette di avere l’acqua necessaria per la vita. All’orizzonte, tra le nuvole, si vedono gli altissimi cucuzzoli innevati delle Ande boliviane. Ormai il Perù distava non più di un centinaio di chilometri.

Leggi la seconda parte.

Da: Il Ponte di maggio – giugno.

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