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Zaccaria Giacometti

10 agosto 2020

Uno «spirito di fuoco pensante». Ricorre oggi il 50° anniversario della morte del grande giurista bregagliotto.

Le origini familiari e culturali e la vita professionale di Zaccaria Giacometti (Stampa, 1893 – Zurigo, 1970) offrono ricchi spunti per una narrazione avvincente. Rimasto orfano in giovane età, Zaccaria crebbe con il fratello nella casa del prozio Rodolfo; nelle immediate vicinanze vivevano Giovanni Giacometti e Annetta Stampa, sorella della madre, e così Zaccaria crebbe quasi come un fratello maggiore insieme ad Alberto, Diego, Ottilia e Bruno, con cui mantenne contatti per tutta la vita, come pure con l’altro più anziano cugino Augusto. Diversamente dallo zio e da questi cugini non intraprese però un percorso nell’arte, ma una carriera di tutt’altro genere, divenendo il professore di diritto pubblico senz’altro più incisivo del Novecento svizzero. All’Università di Zurigo, dalla metà degli anni Venti fino alla rinuncia alla cattedra per ragioni di salute nel 1960, plasmò il pensiero di diverse generazioni di giuristi e contribuì grandemente all’affermazione del pensiero dello stato di diritto. Tra le sue principali opere bisogna senz’altro citare Das Staatsrecht der schweizerischen Kantone (1942), lo Schweizerisches Bundesstaatsrecht (1949) e le Allgeimene Lehren des rechtsstaatlichen Verwaltungsrechts (1960).

Giovanni Giacometti, "Zaccaria Giacometti". China su cartone leggero. Tesserete, 4 aprile 1918.

Zaccaria Giacometti è però anche qualcosa in più di una figura storica che appartiene al passato. La sua opera contiene infatti concetti e contrasti che possono valere anche per il nostro presente e che fanno emergere gli sviluppi di ampio raggio di alcune questioni che riguardano le nostre istituzioni politiche e il nostro diritto pubblico. Nell’anno 2020, in cui ricorre il 50° anniversario della sua morte, ciò risulta ancor più vero, se pensiamo al rinnovato dibattito sul «diritto di necessità» elaborato per confrontarsi con la pandemia e la conseguente crisi.

Un pensatore indipendente

Christoph Bernoulli, suo compagno al collegio di Schiers, ha ricordato come il giovane Zaccaria Giacometti superasse «i suoi compagni di classe per spirito, educazione e senso dell’arte», godendo dell’ammirazione di tutta la scuola: «Accanto a lui sembravamo tutti bambini, perché era una figura che metteva in soggezione, uno spirito di fuoco pensante, dotato di umorismo e di bontà». Sembra che già allora scrivesse articoli per la «Neue Zürcher Zeitung»; con una breve interruzione, continuò a scrivere per il giornale dagli anni Venti fino al termine della sua vita professionale.

Nel 1954, poco dopo la sua nomina a rettore dell’Università, un giornalista gli chiese di fornire qualche dettaglio sulla sua vita personale, ma lui «si oppose supplicando con le sue grandi, eccezionalmente eloquenti mani di erudito»: «Lasciamo perdere», disse, e poi continuò affabilmente a parlare di altro. Questo aneddoto mostra un tratto essenziale della persona di Zaccaria Giacometti, che non desiderava in nessun modo stare sotto i riflettori. Ad interessarlo erano infatti i problemi e le strutture fondamentali del diritto pubblico, pensati però in un modo tanto rigoroso e acuto da non poter evitare l’attenzione del pubblico: quando si confrontava con il diritto non conosceva più ritrosia né riguardi. Le sue posizioni divisero gli animi della politica e delle autorità, come un masso di roccia che separa il corso di un fiume.

L’impronta del repubblicanesimo kantiano

Giacometti è stato considerato come un giuspositivista seguace di Hans Kelsen. In effetti lesse le sue opere in modo approfondito, citandole di frequente; dal 1921 i due avevano anche avviato un vivace scambio intellettuale. Nel maggio 1953 Kelsen tenne a Zurigo la sua brillante conferenza «Cos’è la dottrina pura del diritto?» e il testo fu poi pubblicato nel volume celebrativo per i sessant’anni di Giacometti. Tuttavia, Giacometti non fu un seguace della dottrina pura del diritto, che trova il suo fondamento nel formalismo del neokantismo tedesco e austriaco, e la sua «filosofia del diritto» è piuttosto improntata sulla diversa ricezione che l’opera politico-giuridico di Immanuel Kant ebbe in Svizzera nel corso dell’Ottocento.

Gli insegnamenti di Kant furono infatti recepiti in Svizzera sotto l’influenza dei rifugiati tedeschi sopraggiunti dopo le rivoluzioni del 1830 e del 1848, tra cui i fratelli Ludwig e Wilhelm Snell, cui le università di Berna e Zurigo da poco fondate assegnarono presto una cattedra. La Svizzera repubblicana offrì agli Snell un buon terreno per la loro lettura dell’opera politico-giuridica di Kant, che – diversamente da quanto avveniva negli stati monarchici tedeschi – ne lasciava chiaramente emergere il potenziale illuministico. Si può dire che la Costituzione federale del 1848 diede corpo alla filosofia dello stato di Immanuel Kant. Questo, schiettamente repubblicano, fu dunque il Kant che penetrò nel pensiero di Zaccaria Giacometti grazie all’insegnamento dei fratelli Snell, dei loro successori e, non da ultimo, per mezzo dell’influsso esercitato dal suo maestro Fritz Fleiner (1867-1937).

Giacometti accoglie in particolare l’istanza kantiana di una legislazione conforme alla ragione che, in quanto tale, deve rendere «compatibile la libertà del singolo con la libertà di tutti». Anche la sua adesione al positivismo giuridico si fonda su questo concetto razionale della libertà: «La concezione liberale dello stato (…) – afferma lo stesso giurista bregagliotto – si fonda sull’idea della dignità e della libertà dell’uomo quale essere razionale che deve essere in generale e in eguale misura riconosciuta a tutti gli individui».Al contrario, i concetti di libertà e di autogoverno non appartengono alla dottrina pura del diritto di Kelsen, benché facciano certamente parte del suo impegno politico personale in favore della democrazia.

La posizione di Giacometti nel campo della filosofia del diritto fu dunque particolare e innovativa, non limitandosi al mero insegnamento della dottrina giuspositivista, ma sottoponendo la prassi del diritto pubblico all’esame del repubblicanesimo kantiano che aveva preso corpo nella Costituzione federale svizzera. La sua severa critica alle pratiche dell’Assemblea e del Consiglio federale negli anni Trenta e Quaranta (ma non solo) non fu dunque di natura politica, bensì fondata su queste basi giuridico-filosofiche e su un rigoroso rispetto delle norme costituzionali, ovvero seguendo quello che egli stesso definì «l’imperativo categorico del fondamento della fondamentalità fondamentale». Si può dire che il grande giurista bregagliotto fu in Svizzera il pioniere dello stato di diritto, un concetto che nella pubblicistica politica ha iniziato a comparire e ad esercitare il suo potenziale di plasmazione del diritto soltanto dopo la morte dello stesso Giacometti nel 1970.

La battaglia contro il diritto di necessità

La critica di Giacometti al regime dei pieni poteri durante e ancor più dopo la Seconda guerra mondiale costituisce un monito che tocca anche il nostro presente e futuro. Ai suoi occhi non poteva esserci nessuna forma di legislazione antidemocratica che potesse essere legittimata dalla Costituzione: per questo motivo si spinse ad affermare che dal punto di vista giuridico il regime dei pieni poteri era senz’altro «illegale», al contrario del suo collega Dietrich Schindler sen. (1890-1948), come lui allievo di Fleiner, che invece – in nome della difesa dello stato – concedeva alle autorità federali la legittimità del ricorso a un «diritto di necessità». In questo confronto, nel bel mezzo della guerra, Schindler chiuse a Giacometti le porte delle «Neue Zürcher Zeitung», di cui era presidente del consiglio d’amministrazione; Giacometti rispose così alle critiche non sulle abituali pagine del quotidiano zurighese, ma su quelle del «Basler Nachrichten». La sua posizione sul regime dei pieni poteri fu poi compiutamente formulata nel volume Das Vollmachtenregime der Eidgenossenschaft(1945) e in altri contributi. Alla base delle sue argomentazioni vi era sempre il suo giuspositivismo improntato al repubblicanesimo kantiano, perché «una giustificazione del diritto di necessità sulla base del diritto naturale supera i limiti della scienza del diritto», essendo in sé il diritto naturale «metafisica, fede» che viene invocata «quando il giurista non sa più come procedere».

Contro la commistione di politica e scienza del diritto

Il Consiglio federale argomentava che la sopravvivenza dello stato fosse una condizione della libertà e che se la Confederazione fosse crollata sarebbero periti con essa anche la Costituzione e l’ordinamento liberale. Per questo motivo il diritto di necessità era da considerare legittimo oltre che necessario. Giacometti non poteva concordare, perché quella delle autorità era «un’argomentazione politica travestita sotto forma giuridica», mentre politica e scienza del diritto – che dovrebbe avere come scopo la scienza fine a sé stessa – dovevano essere rigorosamente separati: «La più grande questione di una libera scienza del diritto pubblico – affermava – è l’esame della conformità della pratica costituzionale con le norme della Costituzione». Per questo motivo, «anche in uno stato di necessità il giurista dovrà pensare secondo il diritto e dire che cosa è legale e che cosa invece, ai suoi occhi, non lo è»; decidere se la situazione di necessità possa politicamente giustificare un allontanamento dalle norme della Costituzione è, invece, una questione che spetta alle autorità politiche.

Applicando le argomentazioni di Giacometti al recente «diritto di necessità» elaborato per confrontarsi con la pandemia e la conseguente crisi bisogna costatare che non ci troviamo di fronte a un decreto dei pieni poteri, ma piuttosto a un’interpretazione estensiva della Costituzione federale contro cui lo stesso Giacometti si era ribellato negli anni Trenta. Poiché i concetti di sicurezza esterna e interna di cui si parla nella Costituzione (art. 185) possono essere interpretati in maniera assai flessibile, con il diritto d’ordinanza il Consiglio federale potrebbe appropriarsi di un esteso potere legislativo. Eppure, direbbe Giacometti, «s’interpretano cose che nella Costituzione federale non si trovano scritte».

Come giurista Zaccaria Giacometti insistette su metri di giudizio assai elevati. L’indipendenza della scienza del diritto si mostra nel suo sforzo di distanziarsi dalla politica. E un pensiero giuridico indipendente chiede in ultima analisi che vi siano personalità prive di reticenze e timori pronte a difendere in modo obiettivamente fondato le proprie convinzioni.

Traduzione italiana ad opera della Pro Grigioni italiano di un testo di Andreas Kley comparso sulla Neue Zürcher Zeitung

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